Antonio Resta su ÉNECE | Nidiandolo

Antonio Resta su Francesco Granatiero, Énece. Nidiandolo, Torino 2023 

Con scritti di Pietro Gibellini e di Giovanni Tesio, che mettono in opportuno rilievo la particolarità della poesia di Granatiero, è la “nuova edizione” di un volumetto pubblicato la prima volta nel 1994, che trae il titolo dall’ultimo componimento, Paròle énece, Parole-nidiandolo. L’énece, il nidiandolo, è l’uovo, per lo più di legno o di pietra, che si metteva un tempo nel pollaio a indicare (énece proviene dal latino indicem) il luogo dove le galline erano invogliate a depositare le loro uova. Un oggetto privo di vita finisce con l’attirarne altri, vivi e fecondi, così come il dialetto ormai scomparso, cui Granatiero attinge (che è quello di Mattinata, in provincia di Foggia), serve a far rivivere un mondo perduto, nel quale il poeta ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza. Al contrario di tanta poesia dialettale, quella di Granatiero non cede alla soluzione del patetico e dell’elegiaco, o del comico e del satirico, così come non risalta nessuna vocazione all’idillio, né al bozzetto mordace e canzonatorio. Allo stesso modo, renitente alle lusinghe del saggio folklorico o sociologico, essa consegna al lettore una teoria di situazioni e ambienti, colori e suoni, animali e piante, fuori da ogni ordine o classificazione, per grumi, schegge, barlumi, quasi a suggerire l’idea dei flash o dei fotogrammi che si affacciano fulminei alla memoria, per ricordare il loro persistere nell’oggi. Domina, non a caso, in questi componimenti il tempo presente, sostituito rare volte dall’imperfetto che è, come è noto, un tempo durativo: un tempo, il presente, che dona l’evidenza delle cose che avvengono sotto gli occhi con quella nitidezza conferita loro da una mente rapida e sicura, che coglie le cose nella loro verità. Spiccano qua e là, con la loro carica evocativa, enumerazioni o cataloghi per lo più di animali e piante, come se il loro nome fosse sufficiente a inquadrare una realtà umana, sullo sfondo di una natura selvaggia («Terre de sarapudde rúsele / mendàscene cametre tume / trevínde stinge, all’ùseme / nòne, all’àneme prefume», «Terra di serpillo cisto / nepitella camedrio timo / terebinto lentisco, al fiuto /no, all’anima profumi»: Pecciòne-la reggine). È una successione apparentemente caotica di impressioni che si organizzano invece in organismi di sorprendente economia espressiva. Lo scatto della memoria ferma una miriade di particolari, con un gusto musicale di suggestiva efficacia, grazie al gioco scintillante delle rime, delle assonanze, delle allitterazioni, di effetti fonici in cui anche il dramma sembra perdere la sua drammaticità. In un lessico familiare scabro e intenso si snoda per frammenti una piccola cronaca quotidiana di commovente umiltà, in una terra aspra, in cui uomini e animali conducono la loro difficile esistenza. È un mondo duro fino alla crudeltà (significativa l’immagine della gatta che, pronta a ucciderla, giocherella con la lucertola), che ha lasciato segni indelebili nell’animo del poeta bambino. Non emerge perciò il rimpianto di una favolosa infanzia perduta o, se mai, la ‘favola’ di quell’età è riscoperta o ‘inventata’ dall’adulto, che ancora rimemora ed evoca paesaggi, gesti, momenti. Affiora così la meraviglia dinanzi alle manifestazioni della natura, insieme con le emozioni (la pietà per il mulo preso a scudisciate), le inquietudini e le paure, anche per le reazioni di un padre dolce e ruvido al tempo stesso. Quella che è richiamata è una società agro-pastorale dai bisogni elementari, con le sue credenze, conoscenze e pratiche artigianali di secolare tradizione, che uno sviluppo sempre più vertiginoso in pochi decenni ha cancellato in tutti gli aspetti, compresa la lingua che ne era l’espressione. Il viaggio di Granatiero è un viaggio tra i morti e le parole morte, per ridare vita, attraverso la poesia, a un mondo che non c’è più, e insieme per ritrovare se stesso, le radici della propria personalità. Come se, rievocando quegli episodi che l’hanno visto protagonista in un’infanzia lontana, egli volesse esorcizzare i fantasmi del passato e accettare altresì, in forma ormai pacificata, quegli anni che riscopre decisivi per la sua crescita. C’è, si può dire, un’adesione sentimentale, ma senza sentimentalismi o velleità di anacronistici ritorni. Non traspare nessuna nostalgia, ma balza evidente la lezione di severità e di sobrietà che da quelle esperienze ha ricavato e che probabilmente l’avrà accompagnato nella vita e nella professione di medico, per oltre cinquanta anni, a Torino, dove risiede. Sono episodi fondamentali della sua formazione, in cui sembra riconoscere la parte più vera di se stesso, il fulcro della sua identità. Così che, reimmergendosi in quel mondo, al pari di Vittorio Bodini, ritornato nel suo Salento, potrebbe dire: «qui s’era fatto il mio volto».

Antonio Resta

Dialetto di Neviano (LE)

da Salentoviaggi.it

La orpe, lu lupu e ll’ommu

Nu ggiurnu lu cumpare lupu ne tisse a lla cummare orpe: «Cummare orpe, tìciane ca lu cchiù ffiaccu animale ete l’ommu. Ci te lu canusci, mosciamelu, parcè ulìa cu nne essu nnanzi cu bbìsciu ci nu sse mpaùra». «Sine, cumpare lupu, lu canuscu. Jènime rretu, ca ne mpustamu e tte lu mosciu».

La orpe nnanzi e llu lupu rretu, rrivara a nnanzi a nnu paese. «Mpustàmune cquai», tisse la orpe e ccusì fìciara.

Topu nu picca passàu te ddhai nu vagnone. «Cummare orpe», tisse lu lupu, «è cquistu l’ommu?». «None», tisse la orpe, «quistu à bbèssare ommu, ma ncora nu gghete ommu».

Spattara n’addhru picca, e passàu te ddhai nu vècchiu. «Cummare orpe», dummandàu lu lupu, «è cquistu l’ommu?». «None», rispuse la orpe, «quistu gghè statu ommu ma moi nu gghete cchiui ommu».

A ll’ùrtimu passàu te ddhai nu cacciatore, cu lla schiuppetta su lla spaddha. «Cumpare lupu», tisse la orpe, «eccu l’ommu, gghè cquistu cquai ca sta ppassa».

Lu lupu, allora, se manàu te nanzi a llu cacciatore cu llu mpaùra; ma lu cacciatore pijàu la schiuppetta e nne sparàu to corpi.

Lu lupu se nde fucìu cu nnu tulore a llu cutursu, ca ìa bbuscatu nu picchi te chiumbu; e, fucendo paru cu lla orpe, ne ticìa: «Cummare orpe, gghè bberu: lu cchiù ffiaccu animale ete l’ommu».

La volpe, il lupo e l’uomo

Un giorno compare lupo disse a comare volpe: «Comare volpe, dicono che l’animale più terribile è l’uomo. Se tu lo conosci, mostramelo, perché vorrei uscirgli innanzi per vedere se non si spaventa». «Sì, compare lupo», disse la volpe, «lo conosco. Vienimi dietro, ché ci appostiamo e te lo indico».

La volpe davanti e il lupo dietro, arrivarono vicino a un paese. «Appostiamoci qui», disse la volpe e così fecero.

Dopo un po’ passò di lì un ragazzo. «Comare volpe», disse il lupo, «è questo l’uomo?». «No», disse la volpe, «questo sarà uomo, ma ancora non lo è».

Aspettarono un altro po’, e passò di lì un vecchio. «Comare volpe», domandò il lupo, «è questo l’uomo?». «No», rispose la volpe, «questo è stato uomo, ma ora non è più uomo».

Infine, passò di lì un cacciatore, con il fucile in spalla. «Compare lupo», disse la volpe, «ecco l’uomo, è questo qui che sta passando».

Il lupo, allora, si precipitò davanti all’uomo per fargli paura; ma il cacciatore prese il fucile e gli sparò due colpi.

Il lupo scappò via con un dolore sul dorso, perché si era buscato un po’ di piombo; e, correndo insieme con la volpe, le diceva: «Comare volpe, è vero: l’animale più terribile è l’uomo».

(Versione di Antonio Resta)

Gelo di marzo

Scelatùra marzajole. Nu ffridde stamatine…/ Chièine de scelatùre / auluzze sécche e spine / recheme de delure. // Alla zénn’u tratture / nu rizze sularine / scunzete nn-addemure / a nghiùdece nd’i spine. // Nn-avaste lu fejete / a scalefé li mmene / se jete ’a fuluppine. // Ce chiatre pure u jete / de l’àleve ch’anghiene / da nzine alla marine.

Gelo di marzo. Un freddo stamattina… / Ricoperti di brina / asfodeli secchi e albaspina / ricamo di dolori. // Sul ciglio del tratturo / un riccio solitario / disturbato non tarda / a rizzare le spine. // Non basta il fiato / a scaldare le mani / se soffia l’aquilone. / Gela pure il respiro / dell’alba che risale / in grembo alla marina.

Traduzione in russo di Rosa Comparelli:

Perché «guerra è sempre»

Con la guerra Israele-Hamas e il ritorno dell’antisemitismo, si ripropone la lettura di

GIOVANNI TESIO, Nell’abisso del lager. Voci poetiche sulla Shoah, Interlinea 2019

Un libro davvero necessario questa antologia internazionale – la prima in Italia – delle voci «dal lager» dei poeti che hanno vissuto il lager, o sono stati «per vicissitudini familiari e perdite indissolubili, gravemente colpiti dalla persecuzione», e «del lager», dei poeti che ne hanno scritto senza aver vissuto l’esperienza diretta della Shoah, tanto più perché lungamente meditato, accuratamente introdotto e circostanziatamente inquadrato da un critico come Giovanni Tesio, al cui impegno si devono curatele, convegni e saggi di specifica pertinenza, come il ritratto critico su Primo Levi per “Belfagor”, il primo saggio filologico che sia stato scritto su Se questo è un uomo, e i recentissimi Primo Levi. Io che vi parlo. Conversazione con Giovanni Tesio, libro nato quasi alla vigilia della morte dello scrittore e pubblicato dopo ventinove anni (Einaudi 2016) e Primo Levi. Ancora qualcosa da dire (Interlinea 2018).

È appunto da un libro di Levi, da uno dei momenti più alti della Tregua, dall’emblematica figura di Hurbinek, bambino «figlio di Auschwiz», senza parola e senza nome, ma dallo sguardo «carico di forza e di pena», che muove la densa introduzione per esprimere l’indicibilità dell’abisso, il senso profondo della frase del filosofo Adorno: «Dopo Auschwitz scrivere ancora poesie è barbaro». È la frase che ha suscitato tante polemiche ma anche stimolato a riscoprire le voci poetiche più intense della Shoah. L’affermazione di Adolfo è già negli occhi di Hurbineck, ma, a scanso di equivoci, Tesio prende bene le distanze dagli irritanti «sacerdozi poetici» e da tutte le «poetanti teologiche ortodossie», si arma di ogni possibile diffidenza, sollevando ogni minima riserva, rifuggendo dal vacuo di «modalità letterarie», estetismi e ipetrofie dell’io, ed accogliendo in questo libro soltanto la poesia, quella che, per dirla con Celan, diffida dal bello, cercando il vero.

Ecco allora qui raccolte le voci che emergono per il loro «valore di testimonianza, di presa diretta e di riflessione», non disgiunto dal valore anche estetico, dalle doti altamente morali, proprie della poesia. Si apprezzano tra i tanti, testi di poeti come Paul Celan («Grida suonate più dolce la morte la morte / è un maestro tedesco / grida archeggiate più scuri i violini così salirete / per aria come fumo / così avrete una tomba tra le nuvole lì non si sta stretti») e Nelly Sachs («Oh, i camini / sulle ingegnose dimore della morte, / quando il corpo di Israele si disperse in fumo / per l’aria – / lo accolse, spazzacamino, una stella / che divenne nera / o era forse un raggio di sole?»), Itzhak Katzenelson («Canta, canta, alza nei cieli il tuo sguardo accecato / come se là nei cieli ci fosse un Dio, fagli l’occhiolino / come se rilucesse, c’illuminasse ancora una gran sorte. / Siedi sulle macerie del popolo messo a morte e canta») e Robert Pinsky («Una giovane guida / spiegava / tutto quello che vedevamo nel suo inglese dolce e autoritario: / le basse baracche di mattoni, le montagne di scarpe / meticolosamente ammucchiate, spazzolini da denti, / capelli; una cella / dove il Papa aveva pregato e portato fiori; registri, / fotografie, latrine»), Mario Luzi («non ci sono più lacrime / se non i lucciconi del piccolo, / dopo Hiroshima, dopo Mauthausen… // Ah vorrei almeno intravederlo / il dio accecante che avanza / da crimine a crimine, e penetra / l’umano di una chiarità d’empireo») e Pier Paolo Pasolini («Le fotografie / sono tranquilli testimoni: / a Buchenwald, guardateli, se vivi, / come non hanno ancora imparato del tutto / la vita: // qualcuno ha ancora il coraggio / di sorridere… Guardatelo, / il fetido, piccolo Ebreo / scheletrito in un tanfo di feci, / addossato con indecenza ai compagni / di agonia»), ma anche di autori più recenti come Luciano Violante («Sono Hurbinek / si fece strada un piccolo bambino // Così mi chiamavano / nel paradiso chiamato Auschwitz / dove arrivai / che avevo / tre anni»), Erri De Luca («Mia madre mi lavava i capelli con l’acqua ossigenata / ero bruna, mi faceva bionda, / l’unica della strada. (La guerra è finita signora, adesso siamo a casa nostra.) / All’età di sei anni mi portò da un chirurgo, / il mio naso era curvo, divenne all’insù») o Antonella Anedda («Non volevo dire della guerra / ma della tregua / meditare sullo spazio e dunque sui dettagli / la mano che saggia il muro, la candela per un attimo accesa / e – fuori – le fulgide foglie. / Ancora un recinto con spine confuse ad altre spine / spine di terra che bruciano i talloni»).

Un libro la cui tematica si estende oltre Auschwitz e Majdanek a tutta la realtà «variegata e complessa» dei campi di concentramento, un libro che per il suo taglio ha dovuto sacrificare scritti di genere diverso, altrettanto poetici – sebbene nel saggio introduttivo non manchino riferimenti a prose, romanzi e cinema –, un libro che scandaglia anche la tanta poesia che pur senza un accenno esplicito alla Shoah respira di quell’aria. Un libro che con la poesia scuote le coscienze, per non dimenticare che, come ha scritto Levi nella Tregua, «guerra è sempre». (Francesco Granatiero)

Curlicchie I / Pinocchio I · Mattinata FG

I stòrie de Curlicchie

(Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, volte in dialetto garganico di Mattinata da F. Granatiero)

Cap. I. Maste Cerese, u falegneme, trove nu pízze de legne, che chiange e rire cumbagne a nnu uagnòne.

Ce stève na vòlete…

– Nu rrè! – ànna dice mo sùbbete i uagnune che lèggene ssi stòrie.

Nò, uagnù, ve sbagliete. Ce stève na vòlete nu pízze de legne.

Nenn-ere nu legne de lusse, ma scchitte nu pízze de legne de cataste, de quídde che lu uírne ce méttene nd’a stufe e cemmené p’appeccé u fúche e scalefé i stanze.

Ie nen-zacce accum’è stete, ma u fatte jèie ca nu bbelle júrne ssu pízze de legne capeté nde la puteje de nu uecchie falegneme miss’a nòme mast’Andònie, scchitte ca tuttequande lu chiamèvene maste Cerese, pl’amore ca tenève la pónd’u nese sembe lustre e róssa rósse accume na ceresa ammature.

Cume maste Cerese védde cuddu pízze de legne, rumanì cundende e dènnece pla prescézze na strufenatedde de mene, mummuluscé nzótta vòce:

– Cussu legne è capetete ggiuste ggiuste: me vòie fé na jamme de tauline.

Ditte fatte, pegghié sùbbete l’asce ammulete p’accumenzé a luuàrele la scorze e a sgrussàrele, ma cume fèce pe’ dàrele la prim’accettete, rumanì plu vrazze allàrie, pecché sendì na vuciaredda suttile, che decève raccumannènnece:

– Nen-me vatte tande forte!

Feuràteve cume rumanì cuddu bbúne vecchie de maste Cerese!

Aggeré l’úcchie spaisete atturne la stanze pe’ vedé da dòu putèv’esse mé ’ssute quédda vuciaredde, e nen-védde a nesciune! Uardé sótt’u bbanghe, e nínde; tremendì dajindre la remàdie che stève sembe serrete, e nínde; uardé nd’u císt’i llajanedde e nde la secature, e angore nínde; assì sòp’u candòne·la puteje pe’ dé n’úcchie nde la strete, e nínde! E dunghe?…

– Éi capite, – decì allòre pe’ na mèzzsa rise irattènnece i capidde finde – ce vète ca quédda vuciaredde me la sò affuvurete jie. Turneme alla fatìe.

E repegghié l’asce mmene e mené na bbella bbotte sòp’u pízze de legne.

– Ué! tu m’à’ fatte mele! – vurlé amarechènnece la stéssa vuciaredde.

Ssa vòlete maste Cerese rumanì ndrunghe, pe ll’úcchie dafore pla pavure, la vocca spalanghete e lla lénga longhe appese fin’a u bbecche, accume a nnu masccaròne de fundene. Appene che li turné la paròle, accumenzé’ ddice tremenne e scacagghienne da lu sccande:

– Ma da dòu sarradde assute ssa vuciaredde ch’à’ ditte ué?… Eppure cqua n-ge sté n’ànema vive. Doi vòlete vol’esse ssu pízze de legne che ce óu mbarete a chiange e a lamendàrece cumbagne a nnu uagnòne? Ie nen-ge pozze crète. Ssu legne ècchele cqua; è nu pízze de legne de iret’u fúche, cum’a tutte l’àlete, e a ’ppecciàrele, è bbúne a fé coce na pegnete de fasule… E dunghe? Ce stésse chechédùne ammuccete dajindre? Se ce sté ’mmuccete chédùne, pegge pe’ jisse. Mo l’aggióste ije!

E decenne accussì, auandé pe’ tutt’e dóie li mmene cuddu pòvere pízze de legne e ce mésse a sbatacchiàrele senza piatà pe mbacce i mure de la stanze.

Po ce mésse a ’nnusulé, pe’ sendì se ce stève cheché vvuciaredde che ce lamendeive. Aspetté duie menute, e nínde; cinghe menute, e nínde; díce menute, e nínde!

– Éi capite, – disse allòre sfurzènnece de rire e arruffènnece la pelucche – ce vète ca quédda vuciaredde ch’óu ditte ué, me la sò affuvurete ije! Remettìmece alla fatije.

E seccòme ca tenève pavure, ce mésse a candé nepoche pe’ fàrece curagge.

Ndande, pusete l’asce da nu quarte, pegghié mmene lu chianúzze, p’allesscé e pulezzsé lu pízze de legne; ma nd’u mmende che l’allesscève facenne sótt’e sòpe, sendì quédda vuciaredde che rerenne li decève:

– Fìccete! Tu me sté’ tetechenne pe’ tutte lu cúrpe!

Ssa vòlete lu pòvere maste Cerese cadì nderre accume fulmenete. Quanne aprì dachepe l’úcchie, ce truué assettete nderre.

Lu uise sue parève la facce de n’atune, e pure la pónd’u nese, da róssa rósse accume jere, c’era fatte turchine pla pavure.

Dal Vangelo di Luca

Il mio presepio – Parrocchia “Santa Maria della Luce”, Mattinata 1969

Da u Uangèlie de Luche (*)

[1:26] Quanne Resabbette stève nginde de sé mise, Ddie mmanné l’àngele Irabbejele a Nazzsarèt, nu villagge de la Gallilèie. [1:27] L’àngele scì da na ggiuvenette che stève accredendete pe’ nu certe Ggeseppe, ch’appartenève a i rere ascennenne de Dàvede. La vagnòne ce chiamève Marìe.  [1:28] L’àngele trasì ndla chese e lli decì: «Te salute, Marì! Lu Segnòre sté pe’ tè: Tu à’ truuete irazzsje nnanze a Ddie».[1:29] Marìe rumanì nemunne mbressiunete da ssi pparòle e ce addummannève cuddu salute cché vvenève a dice. [1:30] Ma l’àngele la decì: «Marì, nn-avé pavure! Tu à’ vute la irazzsje da Ddie. [1:31] À vé nu figghie, te l’à ‘ccatté e ll’à métte a nòme Ggésù. [1:32] Jisse uà jesse iranne iranne e Ddie, l’anneputende, l’óua chiamé Figghie sue. U Segnòre l’óua fé rrè, l’óua métte sòp’u trone de Dàvede, u patre sue, [1:33] e jisse uà regné pe’ sembe sòp’u pòpele d’Isdrajèle. U regne sue nn-óua fernisce mé». [1:34] Allòre Marie addummanné all’àngele: «Accume pote jesse quéssa còse, ca ije sò angore accume m’à ffatte mamme?» [1:35] L’àngele arrespunnì: «Lu Spirde Sande uà venì sòp’a tè, e Ddie anneputende, cume na nùvele, t’óu’arraugghié. Pecquésse u uagnòne tue uà jesse sande, Figghie de Ddie. [1:36] Vite: pure Resabbette, la cunzuprina tòu, all’aità ssòu ce òu’accatté u uagnòne. Tutte quande penzèvene ca ne m-butève avé figghie, éppùre sté ggià nginde de sé mise. [1:37] Pe Ddie nen-ge sté còse che n-ge pote fé!» [1:38] Allòre Marìe decì: «Ecche, so’ la sèreve d’u Segnòre. Facésse Ddie pe’ mè accume à’ ditte segnurie». Po l’àngele ce ne scì. [2:1] Tanne u mbératòre Auguste pe’ nu décrète urdené lu cenzemende de tutte quídde che javetèvene nda l’Imbère Romane. [2:2] Cuddu prime cenzemende fó ffatte mmene a Quirinje guvernatòre de la Sirje. [2:3] Tutte quande scèvene a fàrece appundé lu nòme nd’i leggistre, e gnedune nde lu pajèse sue. [2:4] Scì pure Ggeseppe: partì da Nazzsaret, ndla Gallilèie, e ’nghiané a Bèttelèmme, la cità d’u rrè Dàvede, ndla Ggiudèie. Seccòme ca jeve nu rere lundene d’u rrè Dàvede, [2:5] jisse pe’ Marìe, la zita sòu, che stève nginde, ce ava scì scrive ddà. [2:6] Mendre ce truuèvene a Bèttelèmme, arrevé pe’ Marìe l’òre ch’ava fegghié; [2:7] e jésse ce accatté nu figghie, u prime figghie. L’arraugghié nd’i ffasse e llu mettì a durmisce ndla mangiatòre de na stadde, pecché ca nen-druuèrene ate poste. [2:8] Pe’ quíddi quarte ce stèvene pure i pecurele. Lore passèvene la notte a llu sserene pe’ uardé la mórr’i ppècure. [2:9] N’àngele de Ddie ce appresendé a lore, e lla glòrie d’u Segnòre l’arraugghié pla lustre, tande ca lore pegghièrene pavure. [2:10] E ll’àngele li decì: «Nem-begghiete pavure! Ije ve porche na bbella nove, ch’óua dé tanda prescézze a tutte lu pòpele: [2:11] jósce, ndla cità de Dàveve, è nete u Salevatòre vústre, Ggésecrìste, lu Segnòre. [2:12] L’at’arrecanóssce accussì: ata truué nu vagnòne arraugghiete nd’i ffasse dajindre anna mangiatòre». [2:13] Sùbbete sonne apparute e ce sonne aunite a lore nemunne at’àngele. Nzímbre dèvene lòse a Ddie pe’ cussu cande: [2:14] «Glòrie a Ddie ngíle e pece nderre a i crestejene che jisse vole bbene». Po l’àngele ce allundanèrene da i pecurele e ce ne turnèrene ngíle. [2:15] Ndande i pasture ce decèvene l’une l’àlete: «Scéme fine a Bèttelèmme pe’ vedé cchéssònne ch’è capetete e che lu Segnòre ce óu fatte accapisce». [2:16] Arrevèrene de fódde a Bèttelèmme e addà truuèrene a Marie, a Geseppe e allu uagnòne che durmève ndla mangiatòre. [2:17] Doppe che lu uedèrene, decèrene ngire quédde ch’àvene sendute de cussu vagnòne. [2:18] Tutte quande quídde ch’annusulèvene i pasture ce facèvene maravigghie de li ccòse che lore accundèvene. [2:19] Marìe, pe’ cunde sue, ce serrève nd’u core u recorde de tutte quíssi fatte, e ce li repassève dajindre la chepa sòu. [2:20] I pecurele, turnenne, viavìe dèvene lòse a Ddie e llu rengrazsièvene pe’ quédde ch’àvene sendute e viste, ca tutte jeve capetete accume l’àngele ave ditte a lore. 

Dal Vangelo di Luca

[1:26] Quando Elisabetta fu al sesto mese, Dio mandò l’angelo Gabriele a Nazaret, un villaggio della Galilea. [1.27] L’angelo andò da una fanciulla che era fidanzata con un certo Giuseppe, discendente del re Davide. La fanciulla si chiamava Maria.  [1:28] L’angelo entrò in casa e le disse: «Ti saluto, Maria! Il Signore è con te: egli ti ha colmata di grazia». [1:29] Maria fu molto impressionata da queste parole e si domandava che significato poteva avere quel saluto. [1:30] Ma l’angelo le disse: «Non temere, Maria! Tu hai trovato grazia presso Dio.  [1:31] Avrai un figlio, lo darai alla luce e gli metterai nome Gesù. [1:32] Egli sarà grande e Dio, l’onnipotente, lo chiamerà suo Figlio. Il Signore no farà re, lo porrà sul trono di Davide, suo padre, [1:33] ed egli regnerà per sempre sul popolo d’Israele. Il suo regno non finirà mai». [1:34] Allora Maria disse all’angelo: «Come è possibile questo, dal momento che io sono vergine?». [1:35] L’angelo rispose: «Lo Spirito Santo verrà su di te, e l’onnipotente Dio, come una nube, ti avvolgerà. Per questo il tuo bambino sarà santo, Figlio di Dio. [1:36] Vedi: anche Elisabetta, tua parente, alla sua età aspetta un figlio. Tutti pensavano che non potesse avere bambini, eppure è già al sesto mese. [1:37] Nulla è impossibile a Dio!». [1:38] Allora Maria disse: «Eccomi, sono la serva del Signore. Dio faccia con me come tu hai detto». Poi l’angelo la lasciò. [2:1] In quel tempo l’imperatore Augusto con un decreto ordinò il censimento di tutti gli abitanti dell’impero romano. [2:2] Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. [2:3] Tutti andavano a far scrivere il loro nome nei registri, e ciascuno nel proprio luogo d’origine. [2:4] Anche Giuseppe andò: partì da Nazaret, in Galilea, e salì a Betlemme, la città del re Davide, in Giudea. Essendo un lontano discendente del re Davide, [2:5] egli con Maria, sua sposa, che era incinta, doveva farsi scrivere là. [2:6] Mentre si trovavano a Betlemme, giunse per Maria il tempo di partorire;  [2:7] ed essa diede alla luce un figlio, il suo primogenito. Lo avvolse in fasce e lo mise a dormire nella mangiatoia di una stalla, perché non avevano trovato altro posto. [2:8] In quella stessa regione c’erano anche dei pastori. Essi passavano la notte all’aperto per fare la guardia al loro gregge. [2:9] Un angelo del Signore si presentò a loro, e la gloria del Signore li avvolse di luce, così che essi ebbero una grande paura. [2:10] L’angelo disse: «Non temete! Io vi porto una bella notizia, che procurerà una grande gioia a tutto il popolo: [2:11] oggi, nella città di Davide, è nato il vostro Salvatore, il Cristo, il Signore. [2:12] Lo riconoscerete così: troverete un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia». [2:13] Subito apparvero e si unirono a lui molti altri angeli. Essi lodavano Dio con questo canto: [2:14] «Gloria a Dio in cielo e pace in terra agli uomini che egli ama». Poi gli angeli si allontanarono dai pastori e se ne tornarono in cielo. [2:15] Intanto i pastori dicevano gli uni agli altri: «Andiamo fino a Betlemme per vedere quello che è accaduto e che il Signore ci ha fatto sapere». [2:16] Giunsero in fretta a Betlemme e là trovarono Maria, Giuseppe e il bambino che dormiva nella mangiatoia. [2:17] Dopo averlo visto, dissero in giro ciò che avevano sentito di questo bambino. [2:18] Tutti quelli che ascoltarono i pastori si meravigliarono delle cose che essi raccontavano. [2:19] Maria, da parte sua, custodiva gelosamente il ricordo di tutti questi fatti, e li meditava dentro di sé. [2:20] I pastori, sulla via del ritorno, lodavano Dio e lo ringraziavano per quello che avevano sentito e visto, perché tutto era avvenuto come l’angelo aveva loro detto.

(*) Dialetto di Mattinata FG – La preceduta da si legge semiconsonante.

Il mio presepio di casa – Torino 2022

Monopoli BA

Ane passete chiussé de docínd’enne dä quanne l’úmmene de tenne cu nä strengiüte de mene decederne ché fore dâ pôrtä nove chelle ché s’affaccëve söpe ’a piämüre de San Giugliene adó stàvene vigne e jórte bisognëvä fé nasce nä burghétä nove cu nä chiàzzä grenne.

A raggiöne jere ché ’a pupulazzsiöne cresscëve, lu päîse addevendëve sembe chiù peccînne purcè i crestiene stàvene strengiüte accum’a tèndä sarde jind’a quatte muragghie vícchie spagnole.

I terrene addô avrä nasce la chiazze jèrene quese tótte d’i parrôcchie, terrene ché i crestiene àvene dunete alli chiíse cu ’a prumesse ché nä vôlde murte i prívete jàvene a dîce almene nä mess’u mèse in zuffragge p’addefresckè l’ènemä lore. Mo nen-zäpìme s’i messe i stène a dice angore. Nä cöse jè certe, la burghétä nove e ’a chiazzä grenne ’a fäscèrne, e nascette nu bbelle päîse núve.

Ce ’a chiazze d’u bborghe putesse parlè, avr’a puté raccundè aquanne se fäscèvene i físte dâ Mädônne dâ Madje, de Sente Côseme e Attamiene, i preggessiüne d’i Mestere, aquanne la Ndulurete scève ngerche de u figghie, i funéréle cu’ carrôzze, cävàdde bbardete de nere.

Jinde ’a chiazze se fäscèvene sfelete de suldete dâ prîme, dâ secôndä uuèrrä mundiele, d’i file dâ lüpe, d’i bbalîlle, d’i squädrìste, d’i ggiùvene avanguardiste.

Durende i físte se fäscève u sprosce, mendre i galandúmmene d’u päîse stàvene azzìse nnenze u cîrcule lore tótte spapracchiete söp’i sígge cu ’a cepôdde di jòre jinde u palvîne d’û ggelè attacchete a nä catenedde ch’appennëve.

Dä u ponde adó stèvene tremendèvene chíde ch’ässcennàvene dä fore söp’a träjènere e sciarabballe terete dä cävàdde cu i pennacchie nghepe î guarnemínde lòcede.

A cävàdde sciàvene fèmene cu i víste sgargínde i scialle arräcäméte söp’i spadde. L’úmene invece purtàvene pe’ custüme nä cämmìsä chiere, nu curpette, i calzse oscüre, nä pägghièttä larghe nghepe e nu screjele mmene.

Mmínze a chíde ch’änghiänèvene dâ strede d’i märchínde po se vedëve qualché pescätöre, tutte addelettete, ché pe’ cumbärëe purtëve nä bbellä cammise de flänèllä bbienghe, i calzse ndruzzelete a la pescätöre, nu fazzelette rosse attacchete nghenne î scalzsete.

Nä bbruttä dî a Mussulìne nge venne u prudite de fé ’a uerre. E ’a serine d’allarme, ch’avre stete púste söpe u cambänàle de Sän Frangésche, ognittende, spéce de notte, accume nä malägòrie fäscève avvise a la pupulazsiöne ch’avèrnä fòscere quande chiù ssóbbete pussibble a scenne sott’i gallerëe ché stèvene ä i quatte pezzüne dâ chiazze… 

La volpe dalla coda mozza

Dialetto di Mattinata (FG)

La vòlepe pla còte ammuzzete

(Na fàule scritte da LA FONTAINE)

La vòlepe, ce sepe, è furbe e vé truuènne sckitte massarìe ngerche de lucce e de jaddine. Ma lu cafoune, cerchenne pedete e cacatedde, trove la passete e attenne li ttagghiòle.

E alloure è capetete ca na vòlepe ce rumanì ngappete, pe’ fertune sckitte pla còte, tande ca è rejesciute a scapparecinne.

Ma la còte l’óu allassete mèzzse ndla tagghiòle e tutte arraggete e vrevegnòse, quanne ce truuéie allu cunzigghie de li vvòlepe, pl’amore ca nen-vulève jesse l’ùneca vòlepe pla còte ammuzzete, fèce a tutte quande ssa preposte:

«Cché cce ne facime de ssa còsa bbone sckitte a scì scupenne pòleve e fanghe streta strete?»

«Cché bbella preposte!» arrespunnì all’imbrónde n’ata vòlepe.

«Aggìrete na bbotte e fatte vedé!»

Vedenne la còte ammuzzete sòpe lu pertuse·lu cule tutte l’àleti vvòlepe ce sccattèrene da la rise, e alla vòlepe pe’ cuddu stumbe de còte che nn-arrevève alli jamme, pla vrevogne ce secché la lénghe.

È pròpete ruuére, certe vòlete pure li crestejene danne cunzigghie, no’ plu bbene de l’àlete, ma sckitte pe’ cummenienze.